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Angelo Minisci: intervista al coordinatore del dipartimento di Design

Angelo Minisci - LABA

“Io non sono un professore da una bevuta e via, quando interagisco con i ragazzi cerco di essere il più esaustivo possibile cercando di instaurare un rapporto di amicizia e rispetto” – Angelo Minisci

Angelo Minisci, come descriverebbe il suo dipartimento?

Sono arrivato in Laba nel 2004, il dipartimento è nato con la volontà di costruire un percorso accademico portando le basi fondamentali per avere le nozioni di progetto. Lo definirei un dipartimento che cerca di dare da un lato una formazione tecnica, quindi per quello che mi riguarda fare design significa progettare, dare una forma al pensiero. È un dipartimento dove, anche se il disegno è una parte, il pensare a come progettare è la parte più importante, sebbene questo valga per tutti i dipartimenti e per tutti i lavori. In questi anni il Dipartimento di Design e io in armonia con tutti i miei colleghi docenti abbiamo sempre cercato di porre attenzione a quello che è il contemporaneo, cioè cosa significa studiare il design oggi, ma soprattutto cosa vuol dire studiare design in un’accademia.

È un dipartimento, diciamo così, dinamico.

Personalmente cosa la entusiasma di più del clima accademico?

Quello che mi entusiasma è provare a sfruttare le diversità che compongono la classe quindi storie, emozioni, caratteri differenti. È quella pluralità che mi permette di poter imparare e allo stesso tempo giocare con gli studenti, poi ho sempre detto che non insegno agli allievi un metodo perché la cosa che mi entusiasma di più è la possibilità di poter sperimentare sempre nel rispetto delle persone, delle ideologie, del credo e di tutto quello che è l’identità della persona. Quello che mi emoziona è, vedendo a volte gli studenti spauriti, avere l’occasione di creare empatia o una relazione con loro. Con me gli studenti passano due anni quindi è importante costruire un gruppo e lavorare su di esso. Non credo tutto con quelle persone che si sentono fragili e che se non riescono a fare qualcosa si abbattono: non è colpa loro, il più delle volte bisogna capire che se non sanno fare, è perché nessuno li ha mai messi alla prova. Sono entusiasta perché mi piace quello che faccio, quindi vengo in Accademia pensando che ogni giorno sia un giorno buono per imparare qualcosa e ringrazio i miei studenti che mi regalano tanto. Non credo nel metodo della severità, nel far pesare le cose agli allievi, se uno studente ritengo non sia preparato a sufficienza, invece che dargli un brutto voto, preferisco torni all’appello successivo in modo da farlo lavorare meglio.

Cosa vorrebbe dire all’ “Angelo Minisci” studente del passato?

Sicuramente avrei voluto incoraggiarlo a non farsi tante paranoie, ero convinto di poter salvare il mondo facendo questa professione, caratterialmente sono una persona molto operativa, per me la stanchezza viene fuori nel momento in cui mi annoio. Ho iniziato a studiare convinto che sarebbe stato il nostro momento: la mia generazione tra gli anni Ottanta e Novanta era una generazione che affrontava diverse crisi nel mio settore, forse avrei dovuto sovraccaricare meno me stesso e non intestardirmi su determinate cose, ma tornassi indietro rifarei tutto, perché ho sempre avuto paura di perdermi qualcosa.

Non sono mai contento di quello che faccio perché penso di poter sempre fare di meglio.

Qual è l’emozione più bella nel momento in cui è al lavoro, nel momento in cui progetta?

Insegnare per me è un modo per capire come poter parlare con gli altri. Io voglio che gli studenti si innamorino dei libri, non che io li costringa a leggerli, ad inizio anno do una bibliografia di un centinaio di libri, dicendo loro che hanno tutta una vita per studiarli, mi piacerebbe che ogni tanto andassero in biblioteca e curiosi scoprano un libro.
Con le imposizioni non si ottiene niente. Insegnare è bello perché si impara e si impara tanto anche da quelle persone che si nascondono in un angolo sentendosi a disagio, in quei casi cerco sempre di mettermi nei loro panni e trovo un modo per aiutarle. Venti anni di Laba possono essere un modo per capire cosa siamo.

Come si fa a mantenersi aggiornati nel proprio campo e anticipare tendenze e necessità sociali?

Se c’è un segreto nella professione del designer sicuramente è nel tenere viva la curiosità, riuscire ad andare controcorrente, avere il coraggio di non mollare. Molte volte ci sono cose che devi fare da solo e chi ti sta vicino non ti può aiutare, non perché non ti vuole bene ma perché non è nella tua testa. Quello che vedi, lo vedi tu ma lo vedono anche tutti gli altri, invece bisogna sapere che c’è un altro mondo, un mondo magico e nascosto che gli altri non vedono perché nella loro testa ci sono preoccupazioni per cose inutili o superflue. Al designer sta il compito di rendere visibile l’invisibile.

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